La speranza di una nuova politica per il riscatto del Mezzoggiorno
L’unificazione economica e sociale dell’Italia è scomparsa dall’Agenda politica dei governi che negli ultimi anni si sono succeduti alla guida del Paese.
Il divario nord-sud era ed è questione irrisolta, non soltanto a causa di politiche economiche che hanno sempre privilegiato i poteri dominanti, la classe produttiva e finanziaria del Nord, ma anche in dipendenza di assetti istituzionali che costantemente non hanno posto al centro delle proprie decisioni il tema della unificazione economica del Paese.
In altri termini, si è dovuto registrare una grande e costante distanza tra politiche dichiarate e politiche attuate.
L’intervento straordinario per il Mezzogiorno, di fatto sostitutivo di quello ordinario, è stato funzionale alla crescita del Nord ed in quanto tale sostenuto.
Riesce difficile immaginare come una questione così complessa nei suoi aspetti economici, territoriali, sociali e culturali possa risolversi con l’attuazione di una riforma in senso federale dello Stato.
Il decentramento può produrre effetti significativi in un contesto nazionale abbastanza omogeneo e può avere ragione di essere, avendo già acquisito standard civili ed economici soddisfacenti per larga parte della popolazione.Allorché non sussistano tali condizioni gli interessi della parte economicamente più forte del Paese, così come si esprimono a livello territoriale, determineranno obiettivi di politica nazionale tendenti al rafforzamento delle situazioni preesistenti.
Oggi più di ieri il Nord ritiene di non avere bisogno del Sud per espandersi. E’ convinto che deve prestare attenzione alle sfide della globalizzazione che passano per una saldatura strategica con le aree forti dell’Europa, operazione che richiede adeguate politiche economiche e l’investimento di notevoli risorse, le quali non potranno che essere sottratte ad ogni altro obiettivo di perequazione e sviluppo delle aree più deboli del territorio nazionale.
A questo scenario prettamente economico che ha caratterizzato la storia italiana per lungo tempo, oggi si aggiunge un fattore politico in precedenza presente allo stato latente, rappresentato dall’emersione di sentimenti popolari nelle aree più avanzate del paese di fastidio e disapprovazione in ordine alla modalità di spesa delle risorse del Sud e di richiesta forte di reimpiego al Nord di ciò che esso versa allo Stato.
Si tratta di una posizione politica che non tiene conto dell’interesse nazionale, ma che al contrario, privilegia il senso di appartenenza territoriale.
La novità è che questa impostazione non proviene soltanto dalla Lega Nord ma è stata acquisita e fatta propria anche da altre forze politiche alleate ed avverse, interessate a proporre ad esempio, un partito Democratico del Nord ed uno al Sud, o peggio una Lega del Sud per iniziativa di esponenti politici meridionali mossi da esclusivi istinti elettorali, privi di un disegno politico complessivo e di una prospettiva di sviluppo concreta per il Mezzogiorno.
La questione meridionale, si rilevava, è scomparsa dall’agenda politica del Governo, ma più incredibilmente è sparita da tutti i programmi politici e finanche dalle campagne elettorali dei gracili partiti che rappresentano la società italiana in questo momento storico.
L’interesse generale del Paese è stato gradualmente sostituito dalla unanime rincorsa alla difesa di localismi ed egoismi territoriali.
La sintesi perfetta di questo comune sentire è stata efficacemente esposta dal Ministro Giulio Tremonti nel suo saggio “La paura e la speranza”. Il testo offre la lettura autentica di una diffusa domanda di rappresentanza politica proveniente da larghi settori della società italiana, una società chiusa su se stessa, protezionista ed individualista, cui si accompagna la percezione immutata di un mezzogiorno sempre caratterizzato da sprechi, malcostume pubblico e criminalità pervasiva.
Percezione, largamente supportata dalle grandi responsabilità della classe politica ed imprenditoriale del meridione, dall’incessante azione dei media e dai grandi gruppi editoriali del nord, da Confindustria e dalla debolezza dello stesso Sindacato incapace di porre al centro della propria proposta l’unità economica del Paese.
Un Mezzogiorno indistintamente raffigurato dai rifiuti di Napoli e da Gomorra di Saviano.
In questo clima ostile l’unica voce dissonante e coraggiosa, elevatesi in contrapposizione al pensiero dominante che vuole un mezzogiorno irreversibilmente condannato alla maledizione del sottosviluppo e della emarginazione è stata, ancora una volta, quella dei Vescovi del Sud e della Chiesa Meridionale.
Il 12 e 13 febbraio scorso a Napoli il convegno “Chiesa nel Sud, Chiese del Sud”, ha voluto riaffermare la centralità del Mezzogiorno e della sua irrisolta questione economica e sociale.
Il divario crescente tra Nord e Sud del Paese non è affare esclusivo di una parte della società italiana, esso investe l’intera comunità nazionale.
“Il Paese non crescerà se non insieme”.
L’elaborazione dei Vescovi meridionali muove da questa affermazione con la quale iniziava il documento della CEI del 1989 “ Chiesa italiana e mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà.”
Documento - scrive il Professor Alessandro Pajno, relatore del Convegno – di impressionante attualità nel quale quella del Mezzogiorno si configurava come una vera e propria “ questione morale” in riferimento alla disuguaglianza tra Nord e Sud; che il Mezzogiorno aveva conosciuto un modello che aveva condotto ad uno sviluppo incompiuto, distorto, dipendente e frammentario.
Ma soprattutto veniva evidenziato come l’ostacolo ad una crescita autopropulsiva del Mezzogiorno si identificava nel peso eccessivo dei rapporti di potere politico: “ gruppi di potere locali si presentano verso il centro come garanti di consenso, e verso la base come imprescindibili trasmettitori di risorse, più o meno clientelari, più o meno soggette all’arbitrio, all’illegalità al controllo violento”.
In questo contesto veniva denunciata l’impressionante diffusione della criminalità organizzata, elemento di ostacolo allo sviluppo e fenomeno da combattere con una vera e propria “mobilitazione delle coscienze” per il recupero del valore della legalità e per il superamento dell’omertà.
Veniva, infine, sottolineata l’esigenza di una vera politica meridionalistica, mirata al territorio ed accompagnata da un diverso protagonismo della società civile e da un forte recupero del senso dello Stato.
A distanza di poco meno di venti anni nulla sempre essere cambiato, anzi per le ragioni illustrate la condizione generale del Paese – politica, istituzionale ed economica – è profondamente mutata.
Il divario tra il Mezzogiorno, o parti significative di esso, e il resto dell’Italia è aumentato.
Le classi dirigenti meridionali, politici ed imprenditori, continuano ad esercitare la loro funzione secondo logiche distorte e in alcuni casi distruttive per l’economia e la società.
La burocrazia pubblica locale, al pari di quella centrale, continua a rappresentarsi al mondo esterno con comportamenti eticamente discutibili e performance scadenti .
Per fortuna l’esperienza di questi anni, seppure con investimenti pubblici sempre più ridotti e con l’altalena di congiunture economiche non sempre favorevoli, ha dimostrato che vi sono “Mezzogiorni diversi”. Alcuni contesti territoriali hanno segnato interessanti inversioni di tendenza, hanno mostrato vivacità ed efficacia nell’iniziativa politica economica ed amministrativa.
Una speranza per il riscatto del Mezzogiorno ed il rilancio dell’Italia intera.
L’esaltazione del talento e delle capacità dei singoli sono gli unici antidoti alla sopravvivenza di una classe dirigente alimentata da protezionismi e clientele. Affermarsi contando sulle proprie forze riduce il campo di interdizione della mala politica.
Il merito mette in discussione le modalità di selezione del ceto politico, dà grande spazio nella scelta delle rappresentanze istituzionali ai risultati che l’azione politica consegue, attiva una opinione pubblica più consapevole del ruolo partecipativo dei cittadini alla vita politica, apre in sostanza la strada a processi di discontinuità e di rinnovamento nella gestione della cosa pubblica, facendo crescere le virtuosità tipiche delle società libere.